comandante del porto
I simboli a volte creano barriere. Un simbolo che non crea barriere è il sorriso. Ma solo se dietro il sorriso c’è l’ascolto. L’ascolto è fondamentale per capire la realtà che ti viene rappresentate e ciò vuole chi hai davanti. La mia storia parte da queste considerazioni, ed è la storia di uno capace di comprendere una cosa e il suo contrario. Mi spiego: non esistono solo nero e bianco. Comprendere vuole dire accogliere nel tuo animo entrambe gli aspetti, tutti i colori e le sfumature.
Comunque l’ultima cosa che pensavo di diventare era l’ufficiale nelle Capitanerie. Volevo fare il veterinario di campagna, come mio padre. Sono marchigiano, di Sant’Elpidio a Mare. Ho avuto un’infanzia di mare e di basket. Ho giocato fino a 18 anni, poi un infortunio al menisco mi blocca; rimane la passione e l’insegnamento che bisogna fare spogliatoio, sempre. Liceo classico, poi Giurisprudenza. Mi laureo in fretta, avevo una fidanzata, Virginia, una ingegnere che ha fatto l’insegnante di matematica e fisica per seguire la mia carriera. Ci siamo sposati il primo luglio 1985, il giorno dopo che ho finito il corso ufficiali in Accademia, nel corpo della Capitaneria di Porto. Ho scelto questa strada perché il porto è dinamico, anche il più insignificante fa da motore all’economia di un territorio.
Primo imbarco, per fare esperienza: Spagna, Atlantico, Canale di Panama, Nord Pacifico, Canada. Il secondo, a Tolone sull’Andrea Doria, dove trovo un cameratismo straordinario, una vera atmosfera di squadra. Sbarco a dicembre e la prima destinazione in un porto è proprio Ancona, addetto all’armamento e spedizioni, 7 anni. Poi: 3 anni a Civitanova Marche, capo del Circondario; 11 a Pescara, comandante in seconda; 4 a Roma, al Comando generale delle Capitanerie; 4 a Savona, comandante del porto, e ci ho lasciato in pezzo di cuore, i liguri sono meravigliosi, carattere rustico, ma superata la crosta trovi mollica e zucchero. Poi, 4 anni a Pescara, comandante regionale. Infine, di nuovo Ancona, comandante regionale delle Marche: chiudo il cerchio di una vita di traslochi.
Sono un uomo di porto. Gli uomini di porto sono esseri anfibi. Devi capire bene il mare perché una nave possa lavorare bene a terra. Ho fatto un mestiere bellissimo, mi sono sentito utile, ho cercato di motivare il mio personale, ho visto affetto nei loro sguardi. In genere, i frutti del tuo operato li raccoglie chi viene dopo. Giusto così, perché l’impegno messo in campo è per la collettività.
Il porto di Ancona ha una buona armonia. Occorre lavorare perché i porti si aprano il più possibile. È contro natura considerarli luoghi chiusi. Tutti devono poter entrare e rendersi conto della loro importanza. Bisogna far coesistere il passeggio con il rispetto per chi nei porti lavora.
Dopo una vita come la mia, sento il bisogno di recuperare un pezzo di terra, coltivarlo, zapparlo. Come se tornassi alla giovinezza. È una malinconia infinita, ma così recupero me stesso, torno là dove sono partito. Quel pezzo di terra sarà il mio ultimo porto.
di Gian Luca Favetto