La regionalizzazione in aree continentali come prossima forma della globalizzazione, è il primo macro-fattore accelerato dall’impatto della pandemia globale. La trasformazione del quadro geopolitico, le tensioni protezionistiche e gli scenari di nuova guerra fredda e commerciale tra USA e Cina, costituiscono un elemento che molti analisti e operatori valutano realistico e che inciderebbe sulla portualità italiana che dalla spinta esportatrice del nostro sistema industriale stava iniziando ad avere benefici consistenti. La preoccupazione riguarda soprattutto le autorità dei porti dell’arco Adriatico, terminali naturali della grande direttrice che connette far-east ed Europa. Secondo alcuni dirigenti portuali, la “belle epoque” della crescita di reti commerciali globali senza confini stava già terminando anche prima dell’impatto pandemico, e le previsioni di investimenti e trasformazione strutturale dei porti dovrebbero tenerne conto.
Il secondo macro-trend che probabilmente verrà accentuato dall’impatto della crisi, sarà la prosecuzione del trend di concentrazione del mercato e dei grandi carriers marittimi nonché della filiera mare-terra, per tentare di recuperare la caduta di profittabilità del settore e le risorse necessarie agli investimenti attraverso economie di scala sempre più spinte. Si concentrano le grandi rotte intercontinentali e si riducono i porti toccati direttamente dalle mega-navi. Una tendenza che si esprime sia attraverso integrazioni orizzontali tra i global players (le “grandi alleanze”), sia attraverso la prosecuzione dell’integrazione verticale della filiera logistica, con le “multinazionali del mare” che sbarcano a terra e risalgono la catena logistica. La tendenza all’integrazione verticale per provare a recuperare margini di valore oggi sempre più difficili sul mare per un eccesso di stiva, ha anche altri aspetti. Dopo la costruzione dei grandi network, insomma sembra crescere la tendenza ad adattarsi ad un mondo strutturalmente in eccesso di stiva “sbarcando a terra”, con le grandi compagnie che ricercano quella componente di valore che non è più possibile estrarre dalla navigazione, attraverso il governo/controllo di parti della logistica terrestre fino ai mercati di sbocco, gestendo in proprio le problematiche di velocizzazione dell’intero processo logistico. Una tendenza all’integrazione verticale che in tempi più recenti rappresenta anche il tentativo di anticipare l’espansione sul mare del capitalismo delle grandi piattaforme di e-commerce come Amazon o Ali Baba. In una intervista del 2020 l’AD di Maersk ha lanciato per l’appunto la strategia di integrazione verticale come processo di efficientamento del servizio offerto ai marketplace per evitare una loro discesa in campo, puntando sulla completezza del servizio di tracking, sull’automazione dei terminal, sul controllo di nicchie logistiche che consentano ai carriers di offrire un servizio totalmente integrato.
Terzo macro-trend, la necessità di perseguire obiettivi di sostenibilità, per contenere la curva dei costi e ridurre le esternalità ambientali negative sempre più sanzionate dalla regolazione pubblica, sia da parte delle grandi compagnie armatoriali che da parte delle autorità portuali, al fine di migliorare il rapporto con le rispettive città e i territori di insediamento. E’ una tendenza che riguarda un po’ tutta la filiera dell’industria portuale e marittima, non solo i grandi carriers ma i cluster dei servizi portuali, le compagnie croceristiche, fino alle Autorità Portuali. Questo non solo per effetto di regolamentazioni internazionali più restrittive (ad esempio, regolamento UE su emissioni), ma anche per il perseguimento di obiettivi di efficienza e contenimento dei costi: nel trasporto attraverso innovazioni tecnologiche che riducano i consumi e il “low steaming” con la navigazione a minore velocità e l’allungamento dei tempi di trasporto. E’ un terreno sul quale ragionare in una logica culturale nuova, in cui i porti diventano piattaforme di sperimentazione di buone pratiche sostenibili interconnesse, dove è possibile sperimentare la trasformazione delle esternalità ambientali in nuove filiere di economia del mare. I Porti possono essere uno dei motori di questa capacità di incorporare il limite ambientale come nuova fonte di valore.
Quarta macro tendenza riguarda il processo di digitalizzazione e di automazione, ovvero le nuove forze che potenzialmente possono trasformare la filiera del valore dell’industria portuale e richiedono una trasformazione di competenze e lavoro. In generale “la logistica è considerata come uno dei settori che più di tutti potrà trarre beneficio dalla digitalizzazione”[1] dal punto di vista dell’efficienza e della riduzione dell’impatto ambientale. Il porto automatico è ancora un passaggio lontano, soprattutto su quelle rotte e scali che non presentano livelli di traffico tali da sostenere l’investimento tecnologico. Ad oggi l’automazione (quantomeno in Italia) si diffonde lentamente, a piccoli passi, non solo per la frammentazione della struttura portuale, ma per la polverizzazione della filiera logistica, la struttura del mercato del lavoro, la difficoltà di governare da remoto la complessità delle attività portuali. E’ probabile che l’impatto dell’evento pandemico acceleri almeno in parte la penetrazione della modalità digitale nell’industria portuale.
[1] S.Bologna, Le prospettive del lavoro in un futuro di sempre maggiore automazione. Il settore dei porti, paper, Trieste “Propeller Club”, 16 ottobre 2018.