Ormeggiatore

Ultra Undam è il nostro motto, oltre l’onda. Oltre a prendere la cima e assicurarla alla bitta, l’elemento principale del nostro lavoro è garantire la sicurezza nel momento in cui le navi entrano in porto.

Io vengo dal Salento. Adesso, con la globalizzazione, magari non c’è più tanta differenza fra Lecce e Milano, ma negli anni Sessanta sì che si vedeva, e si pativa. Avevo voglia di andare, di crescere. Rimanere al paese voleva dire restare indietro. C’era ancora il latifondo da noi. Il mio futuro sarebbe stato il passato di mio padre: lavorare la terra per altri. La sola alternativa per liberarmi di questo passato era emigrare: o studiavi per trovare un lavoro nelle industrie del Nord o ti arruolavi militare. A metà anni Settanta, la vedevo così.

Per me il mare era l’estate, con mio nonno che faceva il pescatore. Mi dava una sensazione di libertà e di serenità, potevo fantasticare, fare progetti, sognare. Oltre al vento, il mare è l’unica forza che non puoi governare, bisogna portargli rispetto, questo ho imparato.

A sedici anni, mi ha conquistato la pubblicità della Marina. L’ho trovata sull’Intrepido, un giornalino di quand’ero ragazzo. Diceva: “Arruolati in Marina e girerai il mondo”. Ecco la via di fuga. Ho fatto domanda e dopo due anni di corso alla Maddalena, per lavorare nella Capitaneria di Porto, mi hanno mandato ad Ancona. Qui ho compiuto diciott’anni e ho cominciato ad alternare imbarchi e attività in porto.

Nel 1987 mi sposo, nascono tre figli e mi vedo la scena: io assente, che navigo, e i figli che crescono… La stessa cosa di mio padre emigrato in Svizzera, sempre lontano. Allora il comandante del porto mi suggerisce di tentare il concorso per ormeggiatore. Lo faccio nel giugno del 1999, ed eccomi qua. Orgoglioso e felice. Guarda la nostra Torre ormeggiatori-piloti, non ti sembra la tolda di una nave piazzata a terra?

Noi viviamo il mare dal porto e il nostro lavoro è una continua novità. Non è statico come in città, dove quel palazzo, quel monumento sono sempre lì. È un continuo andare e venire di navi, merci, uomini. Tutte le operazioni, anche quelle ripetitive, sono uniche. Vivi in un mondo più immaginario, leggero, pieno di emozioni.

Nel caso di Ancona, tuttavia, devo dire che la situazione è surreale. Non c’è mai stato un vero connubio fra porto e città. La città, come capoluogo di regione, è cresciuta con il terziario; mentre il porto, per scambio merci e per passeggeri, volava verso la dimensione internazionale. È che Ancona non ha mai avuto un ceto marittimo come Genova, Napoli, Bari, c’erano solo pescherecci. È mancato a lungo un interscambio culturale e professionale di arti e mestieri. Soltanto da un decennio Ancona si sta riavvicinando al mondo portuale: spedizionieri, agenti marittimi, doganieri, gruisti, pescatori, camionisti, ferrovieri sono stati a lungo un paese a parte accanto alla città. Meno male che la tendenza è cambiata. Fortunati i ragazzi di oggi che possono godere del nuovo contatto fra città e area portuale. È la condizione perché sbocci il futuro di Ancona.

di Gian Luca Favetto