Slanciato, questo il pregio. Sembra un passo, un passaggio più che un opera architettonica – là, un po’ da parte, a osservare arrivi e partenze. Guardando attraverso, si può passare dal mare al monte e viceversa: così entrano in comunione il molo 22 con il colle Guasco, le onde e i viaggi con l’attesa e la riflessione.

Questo Arco è un andare, un movimento più che un monumento piazzato immobile tra le pagine del porto a segnare con solenne ostinazione il tempo suo e non il nostro. Invece, per l’eleganza e la leggerezza delle sue colonne corinzie, per le proporzioni e il colore, per quel marmo bianco rilucente di cui è fatto, che sembra bolle di sapone, aria, fantasia, risulta nostro contemporaneo. Ha traversato i secoli chiacchierando con il mare, rimanendo perfettamente al passo con i tempi, con i singoli tempi e le diverse epoche. Anzi, dando lui il tempo, come può darlo un metronomo.

Ha la grazia di un capo d’opera. Non appare come una composizione, una costruzione edificata accostando parti diverse, bensì come un pezzo unico. Come se un’unica mano lo avesse scolpito e ricavato da un immenso blocco di marmo. È stato l’insigne Apollodoro a progettarlo, a inizio del Secondo secolo dopo Cristo, nel periodo di massimo splendore della città di Ancona, ai tempi dell’impero romano.

Apollodoro di Damasco era l’architetto prediletto di Traiano, per cui ha immaginato e realizzato fori, porti, ponti, archi, colonne, segnando con i suoi lavori un intero periodo storico, prima di cadere in disgrazia presso Adriano, il successore di Traiano. Di lui il nuovo imperatore, secondo la testimonianza di Cassio Dione e il racconto di Marguerite Yourcenar, diceva: “Sapeva disporre con arte i blocchi di marmo, ma non conosceva le cose degli uomini”. E alla fine, essendo il vecchio architetto schierato con gli oppositori che tramavano nell’ombra, ne ordinò l’uccisione.

L’Arco segna il luogo da cui l’imperatore Traiano, che aveva ampliato e rafforzato a sue spese il porto di Ancona, rendendolo una base sicura per i commerci, il 25 marzo del 101 d.C. è salpato per la vittoriosa campagna contro i Daci, la popolazione che viveva nelle terre al di là del mare Adriatico, oltre il Danubio, quelle che oggi costituiscono gran parte di Romania e Moldavia.

In origine, a ornamento e protezione, aveva sei statue in bronzo, tre che guardavano il mare e tre rivolte verso terra. Quelle verso terra raffiguravano l’imperatore Traiano, sua moglie Plotina e sua sorella Ulpia Marciana. A perdere lo sguardo sulle onde, in modo da curarle e addomesticarle, erano tre divinità: al centro, Nettuno, dio del mare che impugna il tridente; al suo fianco, Portuno, con le chiavi in mano, dio dei porti e delle porte, e Mercurio, messaggero degli dei con le ali ai piedi, la divinità che protegge il commercio e i viaggiatori, nonché i ladri peraltro e l’eloquenza, l’arte del dire bene le cose, di produrre il bello con le parole, il talento del racconto.

Simbolo della memoria, l’Arco non più di Traiano ma di Ancona, rimane un’apertura dove passato e presente entrano in colloquio. E parlano del futuro.

di Gian Luca Favetto