ristoratrice

Io vengo da una famiglia di pescatori. Mio padre aveva tre pescherecci, ma è morto quando avevo sei anni. Il posto dove sono adesso è quello della famiglia di mio marito, Manganelli. Ed è un posto di donne. Mia suocera Alcea, che ha sposato Umberto, falegname, è arrivata da Zara nel 1949. Il porto era disastrato. Hanno messo su un baracchino vicino alla pesa: facevano caffè e vendevano angurie e panini. Nel 1960 la Capitaneria mette a disposizione uno spazio vicino alla Portella Santa Maria. Di fronte, nel caffè La Bitta, c’era Santa Menghi, anche lei una storica donna del porto. Quando se ne è andata, nessuno voleva rilevare l’attività… Allora, nel 1992 l’abbiamo presa noi.

Gli anconetani hanno sempre sottovalutato il porto, lo trovavano brutto, un posto non frequentabile, c’erano i binari del treno… Noi avevamo i tavolini anche dall’altra parte e bisognava che passassero i treni merci carichi di legno o carbone per servire da bere… Il bar era frequentato da marinai, finanzieri e camionisti. Qui ora ho clienti che vengono da quarant’anni. Anch’io sono qui da sempre, da quando ho conosciuto mio marito. Avevo 15 anni. Stavo in piazza del Papa. Augusto veniva a giocare a cappuccetti, tirava le carte. Io lo guardavo dalla finestra. Ci vedevamo nelle vie antiche, quelle per i fidanzatini. Poi un giorno è venuto a casa e ha chiesto a mia madre: signora, posso frequentare sua figlia? Così ci siamo fidanzati. E mio fratello ha detto: Franchina, non fai un bell’affare, faticherai sempre.

Non avevo ancora 18 anni quando mi sono sposata, il 26 aprile 1970. E già lavoravo. Le navi da carico e quelle militari arrivavano la sera, inglesi, americani… Noi davamo da bere e loro si ubriacavano. Mio suocero apriva alle quattro di mattina e noi si chiudeva alle due di notte. Dopo il matrimonio, invece, ho fatto la cuoca alla Terrazza, il ristorante della Stazione marittima. La sera si guadagnava niente. Ma dopo il terremoto del 1972 la gente stava tutta fuori casa, nessuno più cucinava, venivano giù al porto a mangiare e a dormire sui treni e sulle navi.

A cucinare ho imparato da mia madre, da mia suocera e dalla moglie del cugino di mio marito: tagliatelle fatte in casa, sugo di ciccia, sugo di moscioli, baccalà con patate al forno, stoccafisso all’anconetana, che va lavorato tre-quattro ore prima di cucinarlo, il brodetto fatto con sedici tipi di pesci, che adesso non ci sono nemmeno più tutti ‘sti pesci…

Da oltre mezzo secolo lavoro qui e i miei figli ci sono cresciuti, al porto. Li portavo in carrozzella che avevano appena venti giorni, e i camionisti li cullavano. Dicevo: me li guardate, per favore? Se volevano mangiare, dovevano farlo. È stata una vita bellissima. Qui mi sento a casa, sono una portolotta, un’abitante del porto. Con gli ormeggiatori, i piloti, con tutti i portuali, persino con i marinai che passano anche una volta sola, siamo una comunità. In città non è così, ciascuno ha il suo orticello. Al porto no, lo spazio è comune. C’è un ritmo diverso, c’è più confidenza, più condivisione. Qui la vita ti riempie.

di Gian Luca Favetto