professore di storia e filosofia

Questa è una città dove c’è tutto e il contrario di tutto, e la gente non lo sa. È una città che gioca a essere invisibile. Anche chi ci vive, deve andare a cercarla e, ogni volta, deve riscoprirla. Fino al 1861 finiva a piazza Roma, dove adesso c’è la farmacia dell’Orologio. Cresciuta per vie parallele concentriche rispetto al porto, creato dall’imperatore romano Traiano, è proprio dal porto che ricava la sua forma.

Io sono nato in una caserma, la caserma Villarey. Durante la Seconda guerra mondiale, fra il 1943 e il 1944, Ancona è stata selvaggiamente bombardata e non c’erano più case… Mio padre al porto ci lavorava. Era meccanico saldatore, aggiustava i pescherecci. La nostra casa era stata distrutta dalle bombe e con altre cinquanta famiglie siamo stati ospitati in caserma fino al 1956. Ogni nucleo familiare aveva diritto a una finestra, le camere erano divise da tende, si viveva come in un acquario.

Sono stato il primo a nascere alla Villarey e ero coccolato da tutte le signore, tre in particolare, che facevano le pulizie nei cinema della città, il Metropolitan, il Marchetti, il Goldoni… Certi pomeriggi mi portavano con loro e, a volte, mi legavano alla sedia perché non cadessi. Non camminavo ancora ed ero già al cinema… Sul grande schermo ho imparato a leggere: i titoli, i nomi degli attori, le scritte alla fine dei film…

Mia madre era bellissima e ingenua, mio padre brutto e intelligentissimo con il pallino di far studiare me e mia sorella. Io, invece, pensavo che la libertà fosse data dal lavoro. Volevo guadagnare subito. Mi sarebbe piaciuto fare il falegname. Ma alla fine delle medie tutti dicevano che dovevo continuare a studiare, e allora mi hanno iscritto al classico: una fatica terribile, un tormento… Dopo di che, partito con l’idea di fare architettura, a Bologna mi sono iscritto a Filosofia. E così ho fatto l’insegnante di storia e filosofia per tutta la vita, prima alle Magistrali, poi al Liceo Scientifico, poi al Classico, dove avevo giurato di non tornare mai più.

Da bambino per me il porto era il posto dove lavorava mio padre. Amavo gli odori, quello della nafta, quello del pesce, del mare, la luce, i riverberi: mi sembrava un mondo fantastico pieno di avventure. Mi piaceva l’energia, il senso di bella fatica, che emanava dall’attività del porto. Ben presto, crescendo, passato il tempo in cui il porto è la passeggiata con le fanciulle, realizzi veramente che tutta la città s’incentra qui.

Immersa nella luce, circondata da un mare energico e scenografico, Ancona è una città di viaggiatori, una città dove si parte. Ha ragione Vanvitelli, l’architetto che ha dato al golfo la forma dell’abbraccio. Venuto a progettare il Lazzaretto su un’isola artificiale nel 1732, riconosce che il destino di Ancona è nel porto. Anche lui, come gli altri grandi visionari di questa città – Traiano, Galla Placidia, Tiziano, Napoleone, Lorenzo Valerio – è uno che viene da fuori. E, come tutti, ha constatato l’evidenza: Ancona è il suo porto.

di Gian Luca Favetto