Architetto, dirigente MIBACT

Alla fine, posso definirmi un conservatore di senso, di sensi. Sono nato a Sarnano, provincia di Macerata, e la vita lì non mi è mai piaciuta: eri isolato dal mondo, ti trovavi in piazza, un po’ di chiacchiere, un po’ di piscina, poca vita sociale. Gli anni dell’Università sono stati una liberazione. Architettura mi è sembrata la scelta migliore per mettere insieme la passione per lo studio e quella per il fare, il costruire.

E sono andato a Roma. L’impatto con la grande città è stato violento. La prima cosa che ho visto è stata, sulla fiancata di un autobus, la pubblicità di Mistero buffo di Dario Fo al Teatro Tenda nell’autunno del 1985. Ho voluto vederlo. Ho dovuto farmi spiegare tutto, ho preso una mappa, ho cercato il tram… Era una delle prime volte che andavo a teatro. Da quel momento i ritorni a casa sono stati sempre più rari. Il caos e il disorientamento della grande città portavano novità: era quello il posto dove volevo vivere.

Passata l’ubriacatura della scoperta, sono stati anni duri: sentivi molto la differenza fra i nati in città e chi veniva da un paese, non sei niente per nessuno, nessuno si cura di te, ti senti solo. Laureato in Urbanistica e paesaggio, ho lavorato in uno studio di architettura, poi ne ho aperto uno mio e nel 1999 sono entrato al Ministero dei beni culturali. Finisco a Milano, alla Soprintendenza ai monumenti, cinque anni. Poi Roma, a occuparmi della formazione di una cultura del contemporaneo. Poi Campobasso, tre anni. Poi Bari. Poi Ancona, da luglio 2016… e il mese dopo la regione è stata martoriata dal terremoto. Infine, di nuovo Roma, direttore dell’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione.

Il terremoto è stato una scuola per mettere a punto un metodo di lavoro. Tutti i laureati fino al 2000 hanno studiato in un mondo che non c’è più, fuori dalla realtà della rivoluzione tecnologica. Oggi bisogna capire come regolare le trasformazioni per non perdere il senso di ciò che vuoi tutelare, devi comunicare con le persone, far conoscere, ricostruire la visione dei luoghi.

Qui, ad esempio, la città vive di mare, la città è il porto, e il porto e l’anfiteatro sono legati: il lavoro degli scavi parte dall’arco romano e arriva all’anfiteatro. Il collegamento sta nell’esperienza di attraversamento della città: un accumulo di secoli in meno di un chilometro. Ciò vuol dire che tra passato e futuro il legame è inscindibile, e di questo è fatto il presente.

Capisci quanti segni ci sono: la grande Chiesa di San Francesco, che praticamente è un flipper; la cultura veneziana che arriva attraverso un architetto scultore dalmata, Giorgio Orsini; i palazzi con gli angoli stondati del ‘700 e, dirimpetto, le strutture gotiche degli edifici duecenteschi; il Palazzo degli Anziani, che dalla parte bassa ti porta ai quartieri alti della città; la Chiesa del Gesù con la facciata del Vanvitelli; e là in basso l’Arco di Traiano e le gru del Porto. Hai le immagini del futuro con i piedi nel passato.

Ecco, se fosse un organo del corpo umano, il porto sarebbe i piedi o le mani: mette insieme il fare con l’andare.

di Gian Luca Favetto