Console della Compagnia dei lavoratori portuali

Nessuno mi chiama col mio nome. Per la gente del porto io sono Biribina. Chi non è di qui, me lo chiede: cosa vuole dire Biribina? È un vento leggero che ti accarezza e va via. Bello, no? Era il soprannome di mio bisnonno, che faceva il portuale. Non so perché lo chiamavano così, il suo nome era Fedelfranco, tutto attaccato. Era un carbonaro e gli piaceva bere: meglio affidargli le chiavi del tesoro piuttosto che quelle di una cantina.

Un giorno che giocavo a pallone con i portuali, avevo già quasi trent’anni, facevo lo stopper ed ero di quelli che legnavano, beh, mentre son lì che gioco e legno, uno spettatore mi urla: ma tu sei Biribina!, sei di quella famiglia lì. Io rispondo forte di sì e da quel momento per tutti divento Biribina.

Da bambino ero un monello. Quando uscivo, mi toglievo le scarpe e le nascondevo perché i miei compagni erano scalzi e io volevo essere come loro. Ho imparato a nuotare a sei anni, alla Rotonda, vicino ai cantieri. E dopo le medie ho cominciato ad andare a lavorare come apprendista meccanico di auto e moto e come rivenditore di batterie. La domenica facevo il pasticciere. Poi, sono andato in un negozio di stoffe e poi ho fatto l’autista per un negozio di mobili. E continuavo a giocare a pallone.

Finito il militare, con un amico siamo partiti da Colle Marino per venire a chiedere se si poteva lavorare in porto come occasionali. Era il 1967. Allora, trafficando con i mobili, prendevo 13.000 lire a settimana. In porto ho provato due giornate: la prima con le bombole vuote di gas e la seconda scaricavo tonno. E come turnista cottimista ho preso 18.000 lire. E lì mi son messo a giocare a pallone con la squadra dei portuali. Abbiamo vinto un titolo regionale, di Seconda categoria, e siamo andati in Prima.

L’ultimo lavoro fuori dal porto è stato quello di rappresentante di vernici, ma non ero proprio tagliato. Ho lavorato un anno, tutto il 1966, in una ditta con mio zio, ma poi ho mollato, non riuscivo a vendere neanche un barattolo… Comunque, finalmente vengo assunto come portuale stabile nel reparto tiraggio: i giovani lavoravano a bordo e gli anziani a terra. Nel 1980 divento Console della Compagnia dei lavoratori portuali con il 70 per cento dei voti. Rimango in carica per dodici anni. E come Console, come sindacalista, ho imparato che bisogna essere duttili, bisogna sapersi trasformare, cambiare, non essere nostalgici, interpretare il tempo presente e pensare al futuro.

La mia idea è sempre stata quella di aprire la compagnia alla città, a tutti i sindacati e a tutti i partiti, perché noi vivevamo la fraternità, l’amicizia, la solidarietà. Il lavoro nel porto è così: spinge ad aggregarsi, non c’è distacco fra lavoratore e dirigente. L’unica insoddisfazione è che nei miei anni un vero e proprio rapporto con la città non è mai esistito. Forse eravamo troppo chiusi in noi stessi, non so… Forse la città si sentiva estranea. Solamente quando porto e città hanno cominciato a guardarsi con meno diffidenza e meno senso di superiorità reciproco è cominciato il rapporto. È in questo rapporto il destino di Ancona.

di Gian Luca Favetto