Dal punto di vista delle sue forme istituzionali e di governance, l’attuale sistema portuale è l’esito del succedersi e allo stesso tempo del sovrapporsi di tre cicli di cambiamento succedutisi dal secondo dopoguerra.
Un primo ciclo lungo, comprende tutta la fase pre-riforma del 1994, e vede il prevalere del modello del porto come espressione della città e del territorio, oppure dell’industria territorializzata. I porti crescono spontaneamente in connessione con un modello di sviluppo decentrato, a servire o i grandi poli dell’industrializzazione fordista o il sistema dei distretti industriali e della specializzazione flessibile: un sistema portuale che riflette da vicino la natura molecolare della società italiana.
Seconda fase si apre con la riforma del 1994 e si configura come una fase di policentrismo dei porti. La riforma con l’istituzione delle Autorità Portuali cambia le forme di organizzazione interna dei porti, governati dai comitati portuali composti dagli operatori presenti al momento dell’entrata in vigore della legge. La riforma, che riduce il ruolo delle Compagnie Portuali, lascia però quasi intatto il carattere policentrico espressione dei singoli territori dei porti italiani, che rafforzano sul piano funzionale il ruolo di porte del paese sulla globalizzazione, accrescendo la loro proiezione lungo le reti dell’export industriale.
Terzo, la riforma del 2015 produce una riduzione della frammentazione con la creazione di 15 Autorità di Sistema Portuale rispetto alle 24 della fase precedente e soprattutto con il Piano Strategico Nazionale dei Porti e della Logistica avvia la riflessione sulla centralità delle catene logistiche alle spalle dei porti, secondo una logica che potremmo chiamare del “porto lungo”. La programmazione dà rilievo oltre che allo sviluppo dell’industria del container anche ad altre modalità di organizzazione dei flussi, la navigazione infra-mediterranea e le Autostrade del Mare, ragionando di regioni-portuali, introducendo la previsione di strumenti come le aree logistiche (ZLS) per il Nord e le Zone Economiche Speciali per il Sud, di connessioni con l’hinterland e il retroporto. I porti diventano aree logistiche che si allungano nell’entroterra. Non decolla invece il processo di centralizzazione nella pianificazione del ruolo nazionale dei porti che rimangono espressione dei territori. Oggi dal punto di vista delle forme di governance portuale, si confrontano due visioni: la prima vede il porto come una sorta di “banchina di un’unica autorità nazionale”, chiedendo quindi una forte capacità di guida e programmazione centrale che coordini le politiche di investimento e il profilo dei porti. Una seconda visione, mantiene invece il modello del policentrismo portuale: guardando alle esperienze dei paesi europei, l’autonomia e la territorialità dei porti sembrano forze positive quando il numero delle realtà portuali è basso. Alla base dell’ultima riforma una concezione dei porti come piattaforme di una “nuova” industria del mare che unisce logistica, eccellenza della cantieristica, un posizionamento nell’industria commerciale marittima che punta a valorizzare lo spazio mediterraneo de-enfatizzando la competizione tra gli scali principalmente rivolta all’attrattività rispetto all’industria del container. La prefigurazione cioè di una sorta di industria del mare non solo come supporto logistico al made in Italy, ma come modello nazionale dell’economia del mare.